sabato 16 febbraio 2013

in memoria di...

in memoria di mia madre Ada e di mio padre Lavinio,
di Cesare Augusto Tallone e Gherardo Cangioli,
di Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Piero Bigongiari
e di Maurizio Alhadeff 


tutti grandi, persone, poeti, ingegneri, maestri e amici.



IL  VELIERO  IN  BOTTIGLIA


a mia madre, a mio padre



Non ho mai pensato
di contendere la palma al vincitore
di possedere il dono della parola incantata
o il privilegio della poesia.

Non sono mai stato parte
della schiera dei figli del sole
mi sono tenuto anzi discosto da chi vive di parole,
ho fatto per vivere uso del contrario,
mercatura di opposte risorse.

Non ho avuto consuetudine mai
con gli stessi mitici luoghi
pur se ho sudato la mia parte
per un sorso dalla fonte Castalia,
mi sono soltanto abbeverato
affranto come un uomo qualunque
all’unica fonte possibile.

Non ho creduto minimamente mai
di metter  piede su un mio tesoro esclusivo       
e quand’anche mi è parso che fosse
ho sempre pensato alla trappola,
al miraggio avvistato di ventura
dal veliero in bottiglia.

giovedì 16 agosto 2012

Processo Tibetano (breve)



Senza muri l’aula giudiziale
grande, vastissima,
aula magna
a fine di una strada che sale
lungo un precipizio,
una vista amplissima
aperta sulla montagna:
questo il luogo del giudizio.

Al crocicchio
in margine ad un podere
con uno spicchio di casa,
si riuniscono tutte le sere
i litiganti, Lhasa
è lontana…

In vetta alla strada
il giudice aspetta
seduto all’aperto
e comunque vada
prende avanti il compenso
e lascia gli scarti:
chiede, tacita, ascolta
poi sentenzia, congeda le parti
e allontana gli astanti.

Questo è l’uso:
giustizia è fatta, il caso è chiuso
la seduta è tolta.

Dietro il muro
recupera il compenso
e ancora una volta
pari e patta. Poi si smette,
si fa scuro.

Una pallida luna
irridente
colora le occidue vette.

domenica 29 aprile 2012

Premio Coluccio Salutati 2012

Motivazione:


Il componimento “Processo tibetano, breve” di Alessandro Roggero vince il riconoscimento per la critica  del Premio Internazionale di Poesia “Coluccio Salutati” per la carica comunicativa espressa, per la capacità netta e dura di tracciare con le parole i sensi e i luoghi, per la nitidezza semantica e sintattica del proprio affabulare così chiaro, così pulito, così unico. Al contempo, anche per la viva, inestricabile e completa partecipazione dell’autore alle emozioni che sa manifestare attraverso la forza del proprio comporre, la sua intraprendente capacità di esprimere e comunicare immagini, emozioni e pensieri nel ritmo comunicativo ed espressivo del proprio scrivere.

Editore Guido Barlocco                           
29 aprile 2012  

lunedì 16 febbraio 2009

Preludi a Mezzogiorno



Prefazione

Tra gli antichi greci vi era la convinzione che il mezzogiorno fosse il momento più magico della giornata, l’ora delle epifanie divine, quando il sole batteva più forte e i sensi si alteravano e non si potevano frequentare luoghi isolati, pena l’incontro con creature sovrannaturali che era proibito vedere: in questo momento della giornata si ambientavano miti illustri come quello delle Sirene e di Palinuro, in un mare scintillante carico di pericoli e misteri, dove Alessandro Roggero, attraverso questa silloge, ci conduce per mano.
Attraverso una formula semplice, essenziale ma evocativa,s’intrecciano parole colloquiali ed auliche, anche mediante il ricercato espediente dell’ enjambement.
Un’atmosfera rarefatta, sfumata,acquosa, fa da sfondo a una raccolta poetica dai toni delicati ed intensi; l’autore ci immerge, da un lato, nel pieno meriggio, ma anche, dall’altro, nel momento della sera, in una contrapposizione di ambientazioni, entrambe tuttavia dominate da calma malinconica e solitaria tranquillità. Il “carro della sera” percorre la volta celeste nella lirica che apre la raccolta, portando la sua quiete e bloccando lo scorrere del tempo, “come la foglia che si sospende” e immergendo il poeta in un amore tanto grande al punto da volerne morire (Preludio n. UNO).
Il calar della sera è associato al finire della vita, come se fosse una morte del sole che si ripete di giorno in giorno e un annullamento di una giornata ormai spenta, che porta via con sé tutte le malinconie e l’infelicità per la mancanza d’amore. E così, con una densissima espressione metaforica, il tramonto è una “Mano lenta / che chiude gli occhi a un giorno” (Preludio n. DICIASSETTE ).
Gli elementi della natura sono vivide metafore dei sentimenti che il poeta percepisce e trasmette: così il precipitare delle foglie è lo scorrere inesorabile della vita che non si ferma mai, ma la folgia che si stacca dall’albero è anche l’amore che si allontana dall’esistenza dell’autore.
La natura, tuttavia, non è solo spunto per costruzioni poetiche, è molto di più, un vero e proprio elemento in stretta simbiosi con l’autore: è come se questi nella sua solitudine si immergesse nella contemplazione degli elementi naturali ad un livello così profondo da unirsi con essi e diventare tutt’uno con il mare, lo scoglio, il muro di calce …:

Avrò notti ancora come questa
che è caduta
o la voglia di ieri di starmene
solo davanti al mare quasi cieco?
solitudine abbreviata all’angolo
tra uno scoglio e una casa a picco sul mare
dove un vecchio
al balcone fuma il sigaro
e non si muove.

Ero immobile anch’io
come stampato al muro di calce
e bastava poco a impietrirmi.

Prima sarebbe stata una vertigine
ieri era solo serenità.

( Preludio n. DICIOTTO )

La natura esprime in sé i sentimenti del poeta e riesce a placare il suo animo agitato anche semplicemente con il rumore del mare sulla spiaggia; lo stile dell’autore sembra riecheggiare costantemente i momenti lenti, le solitudini e le riflessioni nella campagna toscana di Federico Tozzi.
La solitudine è espressa anche attraverso figure umane emblematiche che sono però anch’esse parte integrante di un paesaggio immobile, come il vecchio che fuma o mastica tabacco; altro elemento naturale che ritorna sovente nelle liriche di Alessandro Roggero è la fila interminabile di  formiche che il poeta osserva in una calma appiattita, come lo scorrere infinito di giorni tutti uguali.
Un tema che riappare spesso nella silloge è anche la malinconia per il tempo che passa: i ricordi di momenti che non tornano più affiorano da macchie di umido su pareti ormai spoglie e dalla desolazione di una stanza abbandonata, dove l’unica cosa viva che si scorge è il dondolarsi di un ragno da un canterano.
Il fluire delle poesie una dopo l’altra appare quindi come una intensa e profonda riflessione sul tempo e i suoi cambiamenti, il tempo della vita la cui brevità è associata con una brillante espressione all’esiguità della cruna di un ago, di biblico richiamo: “A volte l’anima non resiste / alla lentezza dei giorni. / Esigui spazi dentro / la cruna del tempo “ ( Preludio n. OTTO ). Tempo che passa senza modificare nulla : “ Ci sono giorno che passano /senza che accada qualcosa / ( Preludio n. SETTE ) o che invece porta via i nostri cari e con essi il vigore giovanile di un tempo : “ I nostri vecchi se ne vanno / e noi torniamo / sempre meno forti / a seppellirli.” ( Preludio n. QUATTORDICI ).
E con lo scorrere del tempo non distinguiamo più i volti noti e non riconosciamo più noi stessi:

Ad ogni incontro
conosciamo volti nuovi
qualcuno dei vecchi
non c’è più.

.....

Scopriamo affetti
che non abbiamo capito tempo fa.

O è solo il presente com’è
a renderci familiare il passato.

Noi però siamo cambiati:

( Preludio n. QUINDICI )

Nella raccolta troviamo anche alcuni interessanti cenni di denuncia di alcuni mali della società contemporanea: la guerra, che di tanto in tanto affiora nella silloge, la citta che avanza sulla campagna, le maschere o burattini che popolano la vita di tutti i giorni con il loro “giuoco delle parti”.
Ma la malinconia che pervade la silloge non appare definitiva, c’è comunque un’apertura fiduciosa verso il domani, una speranza simboleggiata ancora una volta da un elemento naturale, l’acqua fresca  “che batte / sui teli del campo militare” rendendo diverso il domani ( Preludio n. DICIASSETTE ):


Ma ogni mattino ci sveglia 
con la sua voce fresca
l’acqua piovana!

(Preludio n. QUATTRO)

Annamaria Candeloro
















                                                         Preludi a mezzogiorno



















                                                               A tutti i miei familiari, originari e attuali
                                                               e al piccolo Leonardo, fiero di essergli Nonnino.





























  n.  UNO 

Dietro il carro della sera                                    
che cigola lentamente
ci sono cinque voci
di cani legate.

Per ognuna una vena si rompe
nel collo degli alberi.

Di là c’è il mare
e una barca che scia nella luna.

Voglio essere anch’io
come la foglia che si sospende
o il sasso che rotola senza peso
nell’arenaria.

Più emozione che tempo:
in tutto c’è la sera con la sua quiete.

In me l’amore
e la voglia di quasi morirne.




























  n. DUE

Vedrai altre volte morire                                     
così basso il sole
dietro la nuca verde di isole
e tutte le cose
tetti case alberi allungarsi
fuori dall’ombra
come per non perdersi.

E tu quasi solo sulla spalletta
a poppa con qualche segreta
tentazione di lasciarti andare
  la storta scia della nave
i gabbiani la sera –
per lasciar detto al giorno che fu vano
e troppo povero d’amore.

Avevi addosso tutta
la tristezza che si può avere a vent’anni.

E di quei posti con te portavi via
solo una brutta cartolina a colori.



























    n.  TRE 

Lune irridenti aria limpida                           
e voce nella notte
che mi perseguita
così da vicino.

Sei tu quest’aria
che mi prende alla gola
e non dà scampo ai gridi?

Ieri ancora deliri sull’acqua.

Ma dietro Capo Nisida
ci fu un agguato di nebbie.




































 n.  QUATTRO 

Non ti ho tradito mai                                        
anche se perso
è il senso ormai di un legame.

Tra noi c’è stato
un mondo di brutti sogni.

Ma ogni mattino ci sveglia
con la sua voce fresca
l’acqua piovana!








































   n.  CINQUE

Quante ore ha la notte?                                     

Le ho tutte nel cuore
profondi cammini di chitarre.

Tante come i passi di quel cane che latra.

Oltre le bianche cime degli alberi
precipita la notte con la voce
dei soldati che giocano a dadi
e il sonno dei bambini.

Più amore che vita prima che il gallo canti.

Sulla punta della baionetta
c’è il mio amore che gira impazzito.

Avrai sempre un fazzoletto bianco
tra le mani per fermarlo?





























n.  SEI 


E’ sempre più improbabile                                     
che qualcuno mi fermi per chiedermi cos’ho.

Se non sarà la vita a fermarmi
stanotte per chiedermi perché
dormivo così male.

Alte foglie precipitano,
la notte accoglie  tutto in grembo.

Sarai tu la foglia che da domani si stacca da me.









































 n.  SETTE

Ci sono giorni che passano                                   
senza che accada qualcosa.

Anche in fila come rosse formiche 
su una corteccia di ulivo.

La mia vita è quest’albero
che accoglie passeri e sere.








































 n.  OTTO

A volte l’anima non resiste                       
alla lentezza dei giorni.

Esigui spazi dentro
la cruna del tempo
e acqua grigia che rotola sassi.

Nel cielo troppo alti uccelli
migrano o cadono prima del mare.

Non c’è in tutto questo
segno alcuno per noi.




































n.   NOVE 

Ore come queste che il giorno annida                         
così lunghe a morire
e la vita che fatica
al suo ritmo.

La solitudine è quest’uomo
che cammina rompendo ghiaccio
sotto gli scarponi.







































n.   DIECI 


          Giorni e giorni abbattuti                                        
alla base di muri o in qualche
strada che finiva al fiume.

Stagioni viste mutare
nel taglio dei tufi o sulle pietre.

Passeri dopo passeri, cuore arido
ogni cosa vuota nel suo senso,
una stella due stelle ultime
a impallidire.Da solo
aspettavo i mattini, aria, qualche
voce più prossima. E come un bambino
disegnarsi il tuo volto
nel colore appena grigio del mare
improvvisamente.


































 n.  UNDICI 


              Un giorno tutto questo finirà                              
un giorno pieno di lampi.

Fili e ritmi, rotaie
che si incrociano sotto gli occhi
e viene sonno
prima che le cose si avvicinino.









































 n.  DODICI 

                                     La ruspa lavora da  stamani                                                        
tra ragazzi che corrono e vecchi
fermi appoggiati al bastone.

A giorno fatto sono emersi
vecchi pavimenti di case
e a sera son spariti steccati,
orti coltivati in precario.

Tanti uccelli ruotano in aria:
più faticosa è la ricerca del cibo.

La città avanza!



































n.  TREDICI 

E’ tale l’abitudine ormai                                     
che non so più
se mi accompagni lei
segugio del Gargano
o mi porti con sé.

Ho detto interi vani poemi
mentre insegue
tra cespi d’erba e cumuli
di immondezza
un’improbabile pista
di selvatico.

Perdiamo man mano entrambi
qualcosa, il fiuto infallibile
o la voglia di accanirsi
com’era un tempo.































 n.  QUATTORDICI


Ogni volta che ritorno                                          
la casa sembra più stretta
più corti i vicoli
più veloce il giro dell’orto
l’orizzonte più vicino
più brevi gli intervalli tra un commiato
e l’altro
se non più breve la vita.

Una volta le case, i picchi
le contrade sembravano perdersi,
ora potrei prendere un passero
con la fionda
su uno di quei camini.

I nostri vecchi se ne vanno
e noi torniamo
sempre meno forti
a seppellirli.































n  QUINDICI 


Ad ogni incontro                                                 
conosciamo volti nuovi
qualcuno dei vecchi
non c’è più.

Evochiamo anni della fanciullezza
ed episodi futili
per non sapere cosa dire
ora di noi.

Scopriamo affetti
che non abbiamo capito tempo fa.

O è solo il presente com’è
a renderci familiare il passato.

Noi però siamo cambiati.






























n.  SEDICI 


Nella galleria ci son tutti i ritratti                          
maniere fondi mezzetinte.

Abbondano le falsità delle pose
particolari fuori tempo
eccessi d’epoca.

Gli autori sono noti:
l’unico pregio
è nelle prospettive.




































    n.  DICIASSETTE 


                                                                     Caduta dov’è la sera                                   
 un fiore aspro si è schiuso
attimi che il cuore
quando annotta trattiene
memorie ore accaldate un viso.

Mano lenta
che chiude gli occhi a un giorno
e domani è diverso
con l’acqua che batte
sui teli del campo militare.






































 n. DICIOTTO 

Avrò notti ancora come questa                                 
che è caduta
o la voglia di ieri di starmene
solo davanti il mare quasi cieco?
solitudine abbreviata all’angolo
tra uno scoglio e una casa a picco sul mare
dove un vecchio
al balcone fuma il sigaro 
e non si muove.

Ero immobile anch’io
come stampato al muro di calce
e bastava poco a impietrirmi.

Prima sarebbe stata una vertigine
ieri era solo serenità.

































n. DICIANNOVE 

                         Mi calmò l’agitazione                                       
di una notte il rumore del mare.

Il colpo d’aria e il lampo
che ci sentimmo alle spalle
era un treno che veniva dal nord.

Qualcuno dopo l’inverno
cercava il sole.








































 n.  VENTI 

Dove siamo passati                                            
non c’era uno sull’uscio a vederci.

Solo un vecchio in ombra
che masticava tabacco
ma era come una pietra.










































n. VENTUNO 


Che non sia quella macchia d’umido sul muro              
che si allarga
o quel ragno che dondola,
il dosso acquoso della lumaca,
la fila interminabile di rosse formiche
- attimi del giorno che sorprendo
senza attenzione né noia –
a farmi sentire tanto solo?

O piuttosto la vita che si snoda
in ritmi più lenti
senza che un’ora scocchi
nitida ed improvvisa a due vene dal cuore
o una voce opaca
vibri nel mattino fresco
della tua bocca.

































n.  VENTIDUE 

                                          L’ho creduta una morte                                         
che per vizio avanzi
sotto dai gineprai
dove hanno bevuto le pernici
questo mattino.

E son rimasto immobile
come a godermi in pace
un lento  sfinimento.

C’era un cane nei vigneti
un uomo sui tetti e un bue
bianco nel prato…





































n. VENTITRE 

Visito le tue stanze ancora ingombre                      
di  mobili e qualche suppellettile
essenziale; c’è ancora lo specchio
alla parete, boccette chiazzate
da essenze evaporate sulla consolle,
fiori secchi di campo nel bicchiere,
una mezza candela, il ragno
che si dondola dal canterano,
qualche macchia d’umido sul muro.

Esito sulla soglia: si aprono
le vecchie tende di filé,
tintinna il ciondolo
dal lampadario nel rabbuffo d’aria
che viene dal giardino incolto…

































n. VENTIQUATTRO 

Non è Marble Arch il monumento                            
di Moore che i Pratesi
chiamano ossobuco
né un’agenzia di viaggi
la cassa locale dei risparmi.

Il forestiero che vi giunge
si limita a proporre
lontane esportazioni di tele
o traffico locale di denaro
e ben si guarda da distogliere oltremare
dal calcolo concreto di interessi
occhi azzurri e improbabili
sogni, come di mettere a repentaglio
l’anticamera della segreteria.

Le tentazioni improvvise
cozzano contro l’ordine minuto
dei commerci e ci si ferma
così al giuoco delle parti.





























 n. VENTICINQUE

Ho detto interi vani poemi                                     
seduto alla tua riva o al largo
dove la tua musica nasce.

Si riflette in te la mia vita
nel profondo azzurro
o nell’inquieto moto
o nel fragore, delirio, risacca.

Tutti i miei velieri da bottiglia
hanno navigato con minuscole vele
avventurosamente,
alcuni non han fatto ritorno.

Lasci rifiuti masticati,
inghiotti le cose più care.

Basta un lontano annuncio
un guizzo argenteo
un sasso che rotoli senza peso
nell’arenaria
per rendermi familiari
i tuoi flutti
in questa calma che porti.

Di là c’è il buio
e una barca che scia nella luna.

Resto immobile e solo:
osservo a mare un pino che si sfrangia,
una vuota asteride
e inutili chele di granchio
posarsi sulla riva…
















 n. VENTISEI 

Girovago demente                                              
ho scordato le minime presenze
in cui salda la vita
si rinserra. Ho fiutato
ogni rischio, ogni ventura mi ha colto
al laccio, altre muse inquietanti
hanno popolato i miei sogni.

I gridi dell’infanzia,
diafani smerigli, agitano tuttavia
ogni ora di vita in movenze di balletto.

Burattini di legni inchiodati
alzano tragiche picche
reggenti maschere.

Nel tuo sguardo di ragazza
balena lo stupore che seguì
l’aquilone sfuggitomi di mano.






























n.  VENTISETTE 

                        P….., così mi hai detto                                         
un attimo prima di insinuarti
tra due onde, in un mare
che pareva più gelido
di un mare del nord.

E stupido io che ne risi,
giovane leggerezza mitigata
dal fatto che poi
ne ridemmo anche insieme.

Ma fu il senso mai svelato
di quel sorriso
più che l’etimo incerto
per me della parola
a tener vivo l’equivoco.
Né tanti anni chiarirono alcunché
se non questi ultimi
che in sedimenti opachi
precipitano al fondo
di una catena di reazioni
quasi una vita
in un bicchiere.
Io non per altri che te
invidiai chi sa dire la parola
imprecisa che ti turba
e fa tanto pensare.

Cerco ora il punto
con un sestante deviato
che confonde a specchio
fatto, riflesso  e conseguenza.

















 n.  VENTOTTO 

Il tempo stringe la bocca al sacco                        
degli avvenimenti, urge concludere
e metter nero su bianco.

I nostri vecchi dicevano
porta fieno in cascina.
Altri dizionari
a noi traducono i proverbi
in senso di scadenza
con un analogo fin che sei in tempo
o con un altro, al passo coi tempi
e conclusivo, bada ai fatti tuoi.

C’è chi si adegua e chi tarda.

In deroga alle regole
sommo sottrazioni del tempo
non vissuto a quello perso
in  sogni d’aria fritta
e a somme fatte, di sottrazione
in sottrazione, mi trovo la vita
troppo stretta in esiguità di rapporti
traslata in altri, in problemi
non miei, in formule
o discorsi di nessuna importanza,
a volte su vite trapassate.

Che fare ? Smettere di sommare sottrazioni
e metter fieno in cascina.




















n. VENTINOVE 

Alla necropoli si giunge dal basso,                         
abbandonata la cava, per un tortuoso
camminamento tra bosco e pietraia
e si procede per un tratto
in piano, al sommo della collina
sospesi tra cielo e terra,
tra cipressi sotto costa
ondeggianti nel vento che sale
dalla pianura.

Non ci sono rumori
se non di merli straniti che s’infrattano
e di guizzanti lucertole
tra il secco e il ciglio.

Lo stesso borgo che ci affaccia, antico,
non dà suono
come non nato in questi luoghi.
Un fumo di sterpaglie e l’aeroplano
ci aggiornano al tempo che scorre
sotto e sopra di noi.

Raggiunto il sommo, nessuno
ansima per la salita.
Per consuetudine sappiamo
che poca strada manca alla necropoli
dopo il diaframma d’alberi
che ci separa dal dosso
ultimo della collina. Ci fermiamo
per qualche attimo: tutto l’orizzonte
è visibile, aperto dall’Amiata
che ci sovrasta
fin  quasi al mare, o quel che mare
pare riverberi il controluce
sulla maremma.

Chi vuol procedere e chi fermarsi
o chi anche tornare, ruit hora,
e si rivolta ahimé
dall’altra parte
per un non senso o perché punto
forse da qualche demone della vita.

Dunque ci si divide: la necropoli
si allontana di qualche secolo
e mantiene incolmabili distanze
dalla vociante moltitudine
cui preme prosciutto e pane sciocco.


Si aspetta che il falco compia
un’altra ruota torno torno
il boschetto, il bimbo fermi
il laccio alla scarpa, il cane
deluso dalla pista di selvatico sia
chiamato a raccolta.

Ritorna un gruppo
di adulti argentei, muniti
di manuale, impacchettati in cellophane,
saldo passo compunti
dicono comprensibili in lingua ignota
il perché e il percome
del mistero etrusco. Gli italici
gabellano l’oltralpe e l’oltremare
proprio nei sacri luoghi
per vaga prossima distanza
dall’ante nato – sentenza sibilata
a mezza bocca da Tonino
che è con noi, ma originario
di Cuma.

Congiunzioni di tempi, luoghi
e personaggi avvengono per caso,
il cumano è l’esempio, o per contrasto;
l’enigma si risolve per raptus
logico o in apparenza di contatti
in cui l’equivoco vale
per il recto e per il verso;
ogni cosa raggiunta si allontana
nel riflesso reciproco o nel tratto
incompreso di scrittura
che depista il grafologo nel mare
dell’ipotesi; il compreso
si annebbia in certezze
da manuale.Tutto il noto, scavato,
dibattuto ricomposto in luce
da museo, mantiene la distanza: l’etrusco
guizza più in là,
seppia velata del suo nero,
e riprende il passo dal tempo dell’aldilà.

A noi merenda e vino toscano,
una domenica di maggio,
per non tornare digiuni
a cavallo di motori rombanti.




n.  TRENTA 

Che cosa nasconde questo mare                           
chiuso tra il continente
e qualche suo estremo detrito
- frammento di Atlantide
sfuggito al grembiule di Vulcano –
non può saperlo il pescatore
di aragoste né Sirio
che vigila l’ingresso alla notte.

E allora ci avventuriamo ignari
e alla cieca più lenti
della scia del gabbiano tardivo
che rientra
ormai che la luce si estenua.

Tra loro Itaca, Lefka e Zante più in là,
celano silenzi mitici.
Altri tempi. Di qui Ulisse
è passato inseguito da Omero
e ora si farà confusione d’epoche
ubriacati dal pulviscolo
e dal delirio accecante del mare.

E’ un colpo sghembo di vento
e non l’ultimo sorso di retzina
ahimé, che piega ginocchi
a ciurma e capitano: drizza
il timone, ammaina le vele a poppa,
prua sottocosta e attenti!
Questo punto di mare
è difficile e l’ora infida,
tuona il capobarca,
al centro e silenzio!

Sfrigolio di vele, sartie e strappi,
vola una bestemmia, fortuna,
traducibile al buon dio
in qualche invocazione primordiale
e poi, miracolo, uno specchio d’acque
appena appena increspato di sonorità.

Palinuro attratto in mare
nella notte da una malia…come me
al crepuscolo da un Mozart tragico
appena percettibile
sotto un precario cannicciato
dell’angiporto.

E tu segui il canto delle sirene: si atterra !







 n. TRENTUNO 

Ferma tu, se lo puoi,                                       
la parola infelice nella strozza
e nella mano il sasso
che può rimuovere lo stagno:
continuino a cantare
arenate tra il verde
le piccole ranocchie.

Se propizio è il giuoco dei venti
c’è ancora il tempo di sospendere
ogni caduco evento
in aria come un aquilone.
Tu sciogli il filo
dalla mano che lo contiene,
finché impazzito
non prende sul tetto a roteare
il buffo galletto.

Ora s’equilibra il rosso
uccello di carta, s’impenna,
svaria, precipita, risale
resta sospeso in uno scenario
di turbolenze.  Pare
che un’ora tardi
a scoccare a due vene dal cuore.

Si acceca nel barbaglio di luce
l’occhio che segue il punto
alto che si allontana.
E’ tutta una vertigine di balzi,
lentamente ci avvolge
un pulviscolo di incerti sogni,
scompare in noi ogni paura.

Chiari fosfeni dividono
ogni punto che sprofonda
in un volo di lodole
che piombano sulla pianura.

Vedi tu che discende dalle sfere ?











 n. TRENTADUE

Mentre la luna sale                                            
la notte lentamente
cala ma si rischiara.

Quando spegni il lume
sibila un’ala
e il tuo sopracciglio s’inarca:
ti scopri avara
nel gesto d’abitudine infantile.

Sotto il profilo uguale
dell’orizzonte una barca
prossima al pontile
nitidamente appare,
non cela insidia alcuna
il mare, ogni stella
si addentra nel chiarore
della luna e spare,
muore.

Da quella parte
resistono la splendente
Venere e un impavido
Marte. In alto
un avido satellite iridescente
spia i nostri umani
discorsi e scruta, assalto 
d’infrarossi all’insaputa,
la nostra intimità.

Scossi domani
saremo da impagabili primizie,
notizie d’intemperie
in arrivo sul canale.

O mostrerà macerie
di qualche immane calamità
dall’emisfero australe.







 n.    TRENTATRE 
(ad Alessandra R.) 


Inutile il furore                                       
è vano come il fuggire                                 
è scritto che debba morire
di mal di cuore.

Se te ne andrai,
amore mio, un solco
sarai nel mio corpo,
asciutta vena
che lo attraversa.

Persa
come sai certezza
e ogni residua lena
ascolto le parole
ruvida carezza
dell’addio che non pronunci.
Come morto assisto
al gesto di saluto
non visto. Mottetto
in doppia chiave, annunci
ciò che non sento
vola via persa tra vento
e fronda
ogni tua parola
conversa con sé sola
la tua anima
non ha sponda.

Ora che muoio
fiorisce il tuo dardo
confitto come una rosa
nel mio petto
e passa da me
a quel fiore
anche l’estrema linfa
in lei mi trasfiguro
è assente
ogni dolore.

Inutile il furore
è vano come il fuggire
è certo che debba morire
di mal di cuore.







 n. TRENTAQUATTRO 
(ad Antonio Gana) 


Invidio molto te che nei tuoi modi               
                                             se vuoi non odi                                                  
e puoi non vedere
e riesci a godere di rovesciate
prospettive impossibili
per noi, stative
anime lasciate al suolo
tentoni.

Sei sempre in volo
nel tuo mondo,
falco che preda ampie visioni
irripetibili approdando
dall’alto
allo sprone del ponte
sullo spalto che piomba
sul fiume.

Sei sempre libero
come colomba
o come il nume rondone,
spicca dallo spigolo
del cornicione il suo passaggio
sopra la nebbia
all’opposta frontiera
ricca di movimento
nel vento
di fuoriporta.

Sei sempre saggio
come accorta seppia
prigioniera dei bassi fondali,
ti ammanti di nero
e poi risali all’aperto
mare azzurro
che trascolora.

Sei sempre certo
della parola che dici
o che trattieni, pare
come in un guscio.

Se vieni è nocca
all’uscio, se vai
è un moto senza rumore
come un volo.
Solo, immenso, tocca agli amici
un senso di vuoto
e il colpo al cuore.

Amico, questo penso di te
e questo ti dico.






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