Prefazione
Tra gli antichi greci vi era la
convinzione che il mezzogiorno fosse il momento più magico della giornata,
l’ora delle epifanie divine, quando il sole batteva più forte e i sensi si
alteravano e non si potevano frequentare luoghi isolati, pena l’incontro con
creature sovrannaturali che era proibito vedere: in questo momento della
giornata si ambientavano miti illustri come quello delle Sirene e di Palinuro,
in un mare scintillante carico di pericoli e misteri, dove Alessandro Roggero,
attraverso questa silloge, ci conduce per mano.
Attraverso una formula semplice,
essenziale ma evocativa,s’intrecciano parole colloquiali ed auliche, anche
mediante il ricercato espediente dell’ enjambement.
Un’atmosfera rarefatta, sfumata,acquosa,
fa da sfondo a una raccolta poetica dai toni delicati ed intensi; l’autore ci
immerge, da un lato, nel pieno meriggio, ma anche, dall’altro, nel momento
della sera, in una contrapposizione di ambientazioni, entrambe tuttavia
dominate da calma malinconica e solitaria tranquillità. Il “carro della sera”
percorre la volta celeste nella lirica che apre la raccolta, portando la sua
quiete e bloccando lo scorrere del tempo, “come la foglia che si sospende” e
immergendo il poeta in un amore tanto grande al punto da volerne morire
(Preludio n. UNO).
Il calar della sera è associato al
finire della vita, come se fosse una morte del sole che si ripete di giorno in
giorno e un annullamento di una giornata ormai spenta, che porta via con sé
tutte le malinconie e l’infelicità per la mancanza d’amore. E così, con una
densissima espressione metaforica, il tramonto è una “Mano lenta / che chiude
gli occhi a un giorno” (Preludio n. DICIASSETTE ).
Gli elementi della natura sono vivide
metafore dei sentimenti che il poeta percepisce e trasmette: così il
precipitare delle foglie è lo scorrere inesorabile della vita che non si ferma
mai, ma la folgia che si stacca dall’albero è anche l’amore che si allontana
dall’esistenza dell’autore.
La natura, tuttavia, non è solo spunto
per costruzioni poetiche, è molto di più, un vero e proprio elemento in stretta
simbiosi con l’autore: è come se questi nella sua solitudine si immergesse
nella contemplazione degli elementi naturali ad un livello così profondo da
unirsi con essi e diventare tutt’uno con il mare, lo scoglio, il muro di calce
…:
Avrò notti ancora come questa 
che è caduta 
o la voglia di ieri di starmene 
solo davanti al mare quasi cieco? 
solitudine abbreviata all’angolo 
tra uno scoglio e una casa a picco sul mare 
dove un vecchio 
al balcone fuma il sigaro 
e non si muove.
Ero immobile anch’io 
come stampato al muro di calce 
e bastava poco a impietrirmi. 
Prima sarebbe stata una vertigine 
ieri era solo serenità.
( Preludio n. DICIOTTO )
La natura esprime in sé i sentimenti del
poeta e riesce a placare il suo animo agitato anche semplicemente con il rumore
del mare sulla spiaggia; lo stile dell’autore sembra riecheggiare costantemente
i momenti lenti, le solitudini e le riflessioni nella campagna toscana di
Federico Tozzi.
La solitudine è espressa anche
attraverso figure umane emblematiche che sono però anch’esse parte integrante
di un paesaggio immobile, come il vecchio che fuma o mastica tabacco; altro
elemento naturale che ritorna sovente nelle liriche di Alessandro Roggero è la
fila interminabile di  formiche che il
poeta osserva in una calma appiattita, come lo scorrere infinito di giorni
tutti uguali.
Un tema che riappare spesso nella silloge
è anche la malinconia per il tempo che passa: i ricordi di momenti che non
tornano più affiorano da macchie di umido su pareti ormai spoglie e
dalla desolazione di una stanza abbandonata, dove l’unica cosa viva che si
scorge è il dondolarsi di un ragno da un canterano.
Il fluire delle poesie una dopo l’altra
appare quindi come una intensa e profonda riflessione sul tempo e i suoi
cambiamenti, il tempo della vita la cui brevità è associata con una brillante
espressione all’esiguità della cruna di un ago, di biblico richiamo: “A volte
l’anima non resiste / alla lentezza dei giorni. / Esigui spazi dentro / la
cruna del tempo “ ( Preludio n. OTTO ). Tempo che passa senza modificare nulla
: “ Ci sono giorno che passano /senza che accada qualcosa / ( Preludio n. SETTE
) o che invece porta via i nostri cari e con essi il vigore giovanile di un
tempo : “ I nostri vecchi se ne vanno / e noi torniamo / sempre meno forti / a
seppellirli.” ( Preludio n. QUATTORDICI ).
E con lo scorrere del tempo non
distinguiamo più i volti noti e non riconosciamo più noi stessi:
Ad ogni incontro 
conosciamo volti nuovi 
qualcuno dei vecchi 
non c’è più. 
.....
Scopriamo affetti 
che non abbiamo capito tempo fa.
O è solo il presente com’è 
a renderci familiare il passato.
Noi però siamo cambiati:
( Preludio n. QUINDICI )
Nella raccolta troviamo anche alcuni
interessanti cenni di denuncia di alcuni mali della società contemporanea: la
guerra, che di tanto in tanto affiora nella silloge, la citta che avanza sulla
campagna, le maschere o burattini che popolano la vita di tutti i giorni con il
loro “giuoco delle parti”.
Ma la malinconia che pervade la silloge
non appare definitiva, c’è comunque un’apertura fiduciosa verso il domani, una
speranza simboleggiata ancora una volta da un elemento naturale, l’acqua
fresca  “che batte / sui teli del campo
militare” rendendo diverso il domani ( Preludio n. DICIASSETTE ):
Ma ogni mattino ci sveglia  
con la sua voce fresca 
l’acqua piovana!
(Preludio n. QUATTRO)
Annamaria Candeloro 
                                                         Preludi
a mezzogiorno
                                                               A
tutti i miei familiari, originari e attuali
                                                               e
al piccolo Leonardo, fiero di essergli Nonnino.
Dietro il carro della sera                                    
che cigola lentamente 
ci sono cinque voci 
di cani legate. 
Per ognuna una vena si rompe 
nel collo degli alberi. 
Di là c’è il mare 
e una barca che scia nella luna. 
Voglio essere anch’io 
come la foglia che si sospende 
o il sasso che rotola senza peso 
nell’arenaria. 
Più emozione che tempo: 
in tutto c’è la sera con la sua
quiete. 
In me l’amore 
e la voglia di quasi morirne.
Vedrai altre volte morire                                     
così basso il sole 
dietro la nuca verde di isole 
e tutte le cose 
tetti case alberi allungarsi 
fuori dall’ombra 
come per non perdersi.
E tu quasi solo sulla spalletta 
a poppa con qualche segreta 
tentazione di lasciarti andare 
–  la storta scia della nave 
i gabbiani la sera – 
per lasciar detto al giorno che fu
vano 
e troppo povero d’amore. 
Avevi addosso tutta 
la tristezza che si può avere a
vent’anni. 
E di quei posti con te portavi via 
solo una brutta cartolina a colori.
Lune irridenti aria limpida                           
e voce nella notte 
che mi perseguita 
così da vicino. 
Sei tu quest’aria 
che mi prende alla gola 
e non dà scampo ai gridi? 
Ieri ancora deliri sull’acqua. 
Ma dietro Capo Nisida 
ci fu un agguato di nebbie.
Non ti ho tradito mai                                        
anche se perso 
è il senso ormai di un legame.
Tra noi c’è stato 
un mondo di brutti sogni.
Ma ogni mattino ci sveglia 
con la sua voce fresca 
l’acqua piovana!
Quante ore ha la notte?                                     
Le ho tutte nel cuore 
profondi cammini di chitarre.
Tante come i passi di quel cane che
latra.
Oltre le bianche cime degli alberi 
precipita la notte con la voce 
dei soldati che giocano a dadi
e il sonno dei bambini.
Più amore che vita prima che il gallo
canti.
Sulla punta della baionetta 
c’è il mio amore che gira impazzito. 
Avrai sempre un fazzoletto bianco 
tra le mani per fermarlo?
E’ sempre più improbabile                                     
che qualcuno mi fermi per chiedermi
cos’ho.
Se non sarà la vita a fermarmi 
stanotte per chiedermi perché 
dormivo così male.
Alte foglie precipitano, 
la notte accoglie  tutto in grembo.
Sarai tu la foglia che da domani si
stacca da me.
Ci sono giorni che passano                                   
senza che accada qualcosa.
Anche in fila come rosse formiche  
su una corteccia di ulivo. 
La mia vita è quest’albero 
che accoglie passeri e sere.
A volte l’anima non resiste                       
alla lentezza dei giorni.
Esigui spazi dentro 
la cruna del tempo 
e acqua grigia che rotola sassi. 
Nel cielo troppo alti uccelli 
migrano o cadono prima del mare.
Non c’è in tutto questo 
segno alcuno per noi.
Ore come queste che il giorno annida                         
così lunghe a morire 
e la vita che fatica 
al suo ritmo.
La solitudine è quest’uomo 
che cammina rompendo ghiaccio 
sotto gli scarponi.
          Giorni e giorni abbattuti                                        
alla base di muri o in qualche 
strada che finiva al fiume.
Stagioni viste mutare 
nel taglio dei tufi o sulle pietre.
Passeri dopo passeri, cuore arido 
ogni cosa vuota nel suo senso,
una stella due stelle ultime 
a impallidire.Da solo 
aspettavo i mattini, aria, qualche 
voce più prossima. E come un bambino 
disegnarsi il tuo volto 
nel colore appena grigio del mare 
improvvisamente.
              Un giorno tutto questo finirà                              
un giorno pieno di lampi.
Fili e ritmi, rotaie 
che si incrociano sotto gli occhi 
e viene sonno 
prima che le cose si avvicinino.
                                     La ruspa lavora da  stamani                                                        
tra ragazzi che corrono e vecchi 
fermi appoggiati al bastone. 
A giorno fatto sono emersi 
vecchi pavimenti di case 
e a sera son spariti steccati, 
orti coltivati in precario. 
Tanti uccelli ruotano in aria: 
più faticosa è la ricerca del cibo.
La città avanza!
E’ tale l’abitudine ormai                                     
che non so più 
se mi accompagni lei 
segugio del Gargano 
o mi porti con sé. 
Ho detto interi vani poemi 
mentre insegue 
tra cespi d’erba e cumuli 
di immondezza 
un’improbabile pista 
di selvatico.
Perdiamo man mano entrambi 
qualcosa, il fiuto infallibile 
o la voglia di accanirsi 
com’era un tempo.
Ogni volta che ritorno                                          
la casa sembra più stretta 
più corti i vicoli 
più veloce il giro dell’orto 
l’orizzonte più vicino 
più brevi gli intervalli tra un
commiato 
e l’altro 
se non più breve la vita.
Una volta le case, i picchi 
le contrade sembravano perdersi, 
ora potrei prendere un passero 
con la fionda 
su uno di quei camini. 
I nostri vecchi se ne vanno 
e noi torniamo 
sempre meno forti 
a seppellirli.
Ad ogni incontro                                                 
conosciamo volti nuovi 
qualcuno dei vecchi 
non c’è più.
Evochiamo anni della fanciullezza 
ed episodi futili 
per non sapere cosa dire 
ora di noi.
Scopriamo affetti 
che non abbiamo capito tempo fa. 
O è solo il presente com’è 
a renderci familiare il passato.
Noi però siamo cambiati.
Nella galleria ci son tutti i
ritratti                          
maniere fondi mezzetinte.
Abbondano le falsità delle pose 
particolari fuori tempo 
eccessi d’epoca.
Gli autori sono noti:
l’unico pregio 
è nelle prospettive.
attimi che il cuore 
quando annotta trattiene 
memorie ore accaldate un viso. 
Mano lenta 
che chiude gli occhi a un giorno 
e domani è diverso 
con l’acqua che batte 
sui teli del campo militare. 
Avrò notti ancora come questa                                 
che è caduta 
o la voglia di ieri di starmene 
solo davanti il mare quasi cieco? 
solitudine abbreviata all’angolo 
tra uno scoglio e una casa a picco sul
mare 
dove un vecchio 
al balcone fuma il sigaro  
e non si muove.
Ero immobile anch’io 
come stampato al muro di calce 
e bastava poco a impietrirmi.
Prima sarebbe stata una vertigine 
ieri era solo serenità.
                         Mi calmò l’agitazione                                       
di una notte il rumore del mare.
Il colpo d’aria e il lampo 
che ci sentimmo alle spalle 
era un treno che veniva dal nord.
Qualcuno dopo l’inverno 
cercava il sole.
Dove siamo passati                                            
non c’era uno sull’uscio a vederci.
Solo un vecchio in ombra 
che masticava tabacco 
ma era come una pietra.
Che non sia quella macchia d’umido sul
muro              
che si allarga 
o quel ragno che dondola, 
il dosso acquoso della lumaca, 
la fila interminabile di rosse
formiche 
- attimi del giorno che sorprendo 
senza attenzione né noia – 
a farmi sentire tanto solo? 
O piuttosto la vita che si snoda 
in ritmi più lenti 
senza che un’ora scocchi 
nitida ed improvvisa a due vene dal
cuore 
o una voce opaca 
vibri nel mattino fresco 
della tua bocca.
                                          L’ho creduta una morte                                         
che per vizio avanzi 
sotto dai gineprai 
dove hanno bevuto le pernici 
questo mattino.
E son rimasto immobile 
come a godermi in pace 
un lento  sfinimento. 
C’era un cane nei vigneti 
un uomo sui tetti e un bue 
bianco nel prato…
Visito le tue stanze ancora
ingombre                      
di 
mobili e qualche suppellettile 
essenziale; c’è ancora lo specchio 
alla parete, boccette chiazzate 
da essenze evaporate sulla consolle,
fiori secchi di campo nel bicchiere,
una mezza candela, il ragno 
che si dondola dal canterano, 
qualche macchia d’umido sul muro. 
Esito sulla soglia: si aprono 
le vecchie tende di filé, 
tintinna il ciondolo 
dal lampadario nel rabbuffo d’aria 
che viene dal giardino incolto…
Non è Marble Arch il monumento                            
di Moore che i Pratesi 
chiamano ossobuco 
né un’agenzia di viaggi 
la cassa locale dei risparmi.
Il forestiero che vi giunge 
si limita a proporre 
lontane esportazioni di tele 
o traffico locale di denaro 
e ben si guarda da distogliere
oltremare 
dal calcolo concreto di interessi 
occhi azzurri e improbabili 
sogni, come di mettere a repentaglio 
l’anticamera della segreteria.
Le tentazioni improvvise 
cozzano contro l’ordine minuto 
dei commerci e ci si ferma 
così al giuoco delle parti.
Ho detto interi vani poemi                                     
seduto alla tua riva o al largo 
dove la tua musica nasce.
Si riflette in te la mia vita 
nel profondo azzurro 
o nell’inquieto moto 
o nel fragore, delirio, risacca. 
Tutti i miei velieri da bottiglia 
hanno navigato con minuscole vele 
avventurosamente, 
alcuni non han fatto ritorno. 
Lasci rifiuti masticati, 
inghiotti le cose più care.
Basta un lontano annuncio 
un guizzo argenteo 
un sasso che rotoli senza peso 
nell’arenaria 
per rendermi familiari 
i tuoi flutti 
in questa calma che porti. 
Di là c’è il buio 
e una barca che scia nella luna.
Resto immobile e solo: 
osservo a mare un pino che si
sfrangia, 
una vuota asteride 
e inutili chele di granchio 
posarsi sulla riva… 
Girovago demente                                              
ho scordato le minime presenze 
in cui salda la vita 
si rinserra. Ho fiutato 
ogni rischio, ogni ventura mi ha colto
al laccio, altre muse inquietanti 
hanno popolato i miei sogni.
I gridi dell’infanzia, 
diafani smerigli, agitano tuttavia 
ogni ora di vita in movenze di
balletto. 
Burattini di legni inchiodati 
alzano tragiche picche 
reggenti maschere. 
Nel tuo sguardo di ragazza 
balena lo stupore che seguì 
l’aquilone sfuggitomi di mano.
                        P….., così mi hai detto                                         
un attimo prima di insinuarti 
tra due onde, in un mare 
che pareva più gelido 
di un mare del nord. 
E stupido io che ne risi, 
giovane leggerezza mitigata 
dal fatto che poi 
ne ridemmo anche insieme. 
Ma fu il senso mai svelato 
di quel sorriso 
più che l’etimo incerto 
per me della parola 
a tener vivo l’equivoco. 
Né tanti anni chiarirono alcunché 
se non questi ultimi 
che in sedimenti opachi 
precipitano al fondo 
di una catena di reazioni 
quasi una vita 
in un bicchiere. 
Io non per altri che te 
invidiai chi sa dire la parola 
imprecisa che ti turba 
e fa tanto pensare. 
Cerco ora il punto 
con un sestante deviato 
che confonde a specchio 
fatto, riflesso  e conseguenza.
Il tempo stringe la bocca al
sacco                        
degli avvenimenti, urge concludere 
e metter nero su bianco.
I nostri vecchi dicevano 
porta fieno in cascina.
Altri dizionari 
a noi traducono i proverbi 
in senso di scadenza 
con un analogo fin che sei in tempo 
o con un altro, al passo coi tempi 
e conclusivo, bada ai fatti tuoi.
C’è chi si adegua e chi tarda.
In deroga alle regole 
sommo sottrazioni del tempo 
non vissuto a quello perso 
in 
sogni d’aria fritta 
e a somme fatte, di sottrazione 
in sottrazione, mi trovo la vita 
troppo stretta in esiguità di rapporti
traslata in altri, in problemi 
non miei, in formule 
o discorsi di nessuna importanza, 
a volte su vite trapassate.
Che fare ? Smettere di sommare
sottrazioni 
e metter fieno in cascina.
Alla necropoli si giunge dal
basso,                         
abbandonata la cava, per un tortuoso 
camminamento tra bosco e pietraia 
e si procede per un tratto 
in piano, al sommo della collina 
sospesi tra cielo e terra, 
tra cipressi sotto costa 
ondeggianti nel vento che sale 
dalla pianura. 
Non ci sono rumori 
se non di merli straniti che
s’infrattano 
e di guizzanti lucertole 
tra il secco e il ciglio.
Lo stesso borgo che ci affaccia,
antico, 
non dà suono 
come non nato in questi luoghi.
Un fumo di sterpaglie e l’aeroplano 
ci aggiornano al tempo che scorre 
sotto e sopra di noi. 
Raggiunto il sommo, nessuno 
ansima per la salita.
Per consuetudine sappiamo 
che poca strada manca alla necropoli 
dopo il diaframma d’alberi 
che ci separa dal dosso 
ultimo della collina. Ci fermiamo 
per qualche attimo: tutto l’orizzonte 
è visibile, aperto dall’Amiata 
che ci sovrasta 
fin 
quasi al mare, o quel che mare 
pare riverberi il controluce 
sulla maremma. 
Chi vuol procedere e chi fermarsi 
o chi anche tornare, ruit hora, 
e si rivolta ahimé 
dall’altra parte 
per un non senso o perché punto 
forse da qualche demone della vita. 
Dunque ci si divide: la necropoli 
si allontana di qualche secolo 
e mantiene incolmabili distanze 
dalla vociante moltitudine 
cui preme prosciutto e pane sciocco. 
Si aspetta che il falco compia 
un’altra ruota torno torno 
il boschetto, il bimbo fermi 
il laccio alla scarpa, il cane 
deluso dalla pista di selvatico sia 
chiamato a raccolta.
Ritorna un gruppo 
di adulti argentei, muniti
di manuale, impacchettati in
cellophane, 
saldo passo compunti 
dicono comprensibili in lingua ignota 
il perché e il percome 
del mistero etrusco. Gli italici 
gabellano l’oltralpe e l’oltremare 
proprio nei sacri luoghi 
per vaga prossima distanza 
dall’ante nato – sentenza sibilata 
a mezza bocca da Tonino 
che è con noi, ma originario 
di Cuma.
Congiunzioni di tempi, luoghi 
e personaggi avvengono per caso, 
il cumano è l’esempio, o per
contrasto; 
l’enigma si risolve per raptus 
logico o in apparenza di contatti 
in cui l’equivoco vale 
per il recto e per il verso; 
ogni cosa raggiunta si allontana 
nel riflesso reciproco o nel tratto 
incompreso di scrittura 
che depista il grafologo nel mare 
dell’ipotesi; il compreso 
si annebbia in certezze 
da manuale.Tutto il noto, scavato, 
dibattuto ricomposto in luce 
da museo, mantiene la distanza:
l’etrusco 
guizza più in là, 
seppia velata del suo nero, 
e riprende il passo dal tempo
dell’aldilà. 
A noi merenda e vino toscano, 
una domenica di maggio, 
per non tornare digiuni 
a cavallo di motori rombanti.
Che cosa nasconde questo mare                           
chiuso tra il continente 
e qualche suo estremo detrito
- frammento di Atlantide 
sfuggito al grembiule di Vulcano – 
non può saperlo il pescatore 
di aragoste né Sirio 
che vigila l’ingresso alla notte. 
E allora ci avventuriamo ignari 
e alla cieca più lenti 
della scia del gabbiano tardivo 
che rientra 
ormai che la luce si estenua.
Tra loro Itaca, Lefka e Zante più in
là, 
celano silenzi mitici. 
Altri tempi. Di qui Ulisse 
è passato inseguito da Omero 
e ora si farà confusione d’epoche 
ubriacati dal pulviscolo 
e dal delirio accecante del mare.
E’ un colpo sghembo di vento 
e non l’ultimo sorso di retzina 
ahimé, che piega ginocchi
a ciurma e capitano: drizza 
il timone, ammaina le vele a poppa, 
prua sottocosta e attenti! 
Questo punto di mare 
è difficile e l’ora infida, 
tuona il capobarca, 
al centro e silenzio!
Sfrigolio di vele, sartie e strappi, 
vola una bestemmia, fortuna, 
traducibile al buon dio 
in qualche invocazione primordiale 
e poi, miracolo, uno specchio d’acque 
appena appena increspato di sonorità. 
Palinuro attratto in mare 
nella notte da una malia…come me 
al crepuscolo da un Mozart tragico 
appena percettibile 
sotto un precario cannicciato 
dell’angiporto. 
E tu segui il canto delle sirene: si
atterra !
Ferma tu, se lo puoi,                                       
la parola infelice nella strozza 
e nella mano il sasso 
che può rimuovere lo stagno:
continuino a cantare 
arenate tra il verde 
le piccole ranocchie.
Se propizio è il giuoco dei venti 
c’è ancora il tempo di sospendere 
ogni caduco evento 
in aria come un aquilone. 
Tu sciogli il filo 
dalla mano che lo contiene, 
finché impazzito 
non prende sul tetto a roteare 
il buffo galletto. 
Ora s’equilibra il rosso 
uccello di carta, s’impenna,
svaria, precipita, risale 
resta sospeso in uno scenario 
di turbolenze.  Pare 
che un’ora tardi 
a scoccare a due vene dal cuore.
Si acceca nel barbaglio di luce 
l’occhio che segue il punto 
alto che si allontana. 
E’ tutta una vertigine di balzi, 
lentamente ci avvolge 
un pulviscolo di incerti sogni, 
scompare in noi ogni paura.
Chiari fosfeni dividono 
ogni punto che sprofonda 
in un volo di lodole 
che piombano sulla pianura. 
Vedi tu che discende dalle sfere ?
Mentre la luna sale                                            
la notte lentamente 
cala ma si rischiara.
Quando spegni il lume 
sibila un’ala 
e il tuo sopracciglio s’inarca:
ti scopri avara 
nel gesto d’abitudine infantile.
Sotto il profilo uguale 
dell’orizzonte una barca 
prossima al pontile 
nitidamente appare, 
non cela insidia alcuna 
il mare, ogni stella 
si addentra nel chiarore 
della luna e spare, 
muore.
Da quella parte 
resistono la splendente 
Venere e un impavido 
Marte. In alto 
un avido satellite iridescente 
spia i nostri umani 
discorsi e scruta, assalto  
d’infrarossi all’insaputa, 
la nostra intimità. 
Scossi domani 
saremo da impagabili primizie, 
notizie d’intemperie 
in arrivo sul canale. 
O mostrerà macerie 
di qualche immane calamità 
dall’emisfero australe.
Inutile il furore                                       
è vano come il fuggire                                 
è scritto che debba morire 
di mal di cuore.
Se te ne andrai, 
amore mio, un solco 
sarai nel mio corpo, 
asciutta vena 
che lo attraversa.
Persa 
come sai certezza 
e ogni residua lena 
ascolto le parole 
ruvida carezza 
dell’addio che non pronunci.
Come morto assisto 
al gesto di saluto 
non visto. Mottetto 
in doppia chiave, annunci 
ciò che non sento 
vola via persa tra vento 
e fronda 
ogni tua parola 
conversa con sé sola 
la tua anima 
non ha sponda. 
Ora che muoio 
fiorisce il tuo dardo 
confitto come una rosa 
nel mio petto 
e passa da me 
a quel fiore 
anche l’estrema linfa 
in lei mi trasfiguro 
è assente 
ogni dolore.
Inutile il furore 
è vano come il fuggire 
è certo che debba morire 
di mal di cuore.
Invidio molto te che nei tuoi
modi               
                                             se vuoi non odi                                                  
e puoi non vedere 
e riesci a godere di rovesciate 
prospettive impossibili 
per noi, stative 
anime lasciate al suolo 
tentoni. 
Sei sempre in volo 
nel tuo mondo, 
falco che preda ampie visioni 
irripetibili approdando 
dall’alto 
allo sprone del ponte 
sullo spalto che piomba 
sul fiume. 
Sei sempre libero 
come colomba 
o come il nume rondone, 
spicca dallo spigolo 
del cornicione il suo passaggio 
sopra la nebbia 
all’opposta frontiera 
ricca di movimento 
nel vento 
di fuoriporta. 
Sei sempre saggio 
come accorta seppia 
prigioniera dei bassi fondali, 
ti ammanti di nero 
e poi risali all’aperto 
mare azzurro 
che trascolora. 
Sei sempre certo
della parola che dici 
o che trattieni, pare 
come in un guscio. 
Se vieni è nocca 
all’uscio, se vai 
è un moto senza rumore 
come un volo. 
Solo, immenso, tocca agli amici 
un senso di vuoto 
e il colpo al cuore. 
Amico, questo penso di te 
e questo ti dico.
 
